1° Classificato Narrativa: Davide Bacchilega con “Il tempo non è ciclico”
Era un settembre languido e lontano, lo stesso mese del mio compleanno. Pochi giorni prima della mia festa, inizio la vendemmia. La prima di cui ho ricordo. Un ricordo sfumato nelle immagini, ma limpido all’olfatto. L’odore allo stesso tempo acido e dolciastro dei grappoli appena tagliati riempiva l’aria e le narici, mentre mia nonna mi accompagnava per mano tra i filari. Nella vigna ritrovavo mio padre, mia madre, i miei zii, tutti i parenti di ogni ordine e grado. Così tutti assieme, solo a Natale. Ebbi l’impressione fin da subito che anche la vendemmia aveva una sua sacralità, seppure laica. Una cerimonia che ogni anno si replicava uguale, perché il “tempo è ciclico”, mi avevano spiegato. II lavoro era allegro, con la fatica che si stemperava nelle risate. I coniugi si scambiavano consigli pratici o rimbrotti, mentre i cognati si facevano scherzi. I bambini sgusciavano fra le gambe degli adulti, tra i loro discorsi incomprensibili, per andare a calciare un pallone o per ripararsi all’ombra. Qualche anno dopa, avrò avuto sei o sette anni, la vendemmia fu rinviata diversi giorni a causa della pioggia. I vignaioli scrutavano il cielo perplessi. “Chissà come verrà il vino quest’anno”, mugugnavano. C’erano anni in cui il clima, secondo loro, era stato troppo umido; altre volte, troppo secco. Ogni annata portava preoccupazioni. Ma finché ritrovavo nella vigna mio padre, mia madre, gli zii e gli altri parenti, mi pareva che nulla potesse cambiare. Credevo perfino che io potessi restare per sempre bambino. Un bambino che faceva case da adulto, come quando bevevo il vinello nuovo. “Va bene anche per i più piccoli”, mi rassicuravano. Erano calici colmi di promesse, per chi come me stava iniziando a sporgersi sui precipizi della vita. Li bevevo sotto la supervisione della nonna, che si assicurava che non esagerassi. Poi, mia nonna si ammalò e non guarì più. Se ne andò che era estate. La vendemmia che segui fu la prima senza di lei. Tra i filari non ci furono più le risate, gli scherzi, i rimbrotti. Fu un rito congelato, sminuito, come quello di un prete senza fede che dice messa davanti a un pubblico di agnostici. Seguirono vendemmie calde e vendemmie fredde, vendemmie ricche e vendemmie grame. Le annate alternarono gioie e dolori, leggerezza e tormento. A undici anni i parenti decisero che ero abbastanza grande per impugnare le forbici. Fu una specie di battesimo: finalmente potevo entrare anch’io nel mondo dei grandi, partecipando a quel rito che tutti attendevano con ansia e speranza. Ma già il settembre successivo, avevo dodici anni, le facce al vigneto si fecero amare. Nessuno aveva voglia di scherzare e chi ci provava non veniva considerato. Mio padre e mia madre lavoravano distanti, senza scambiarsi parola. Tagliavano i grappoli che avevano davanti al viso e non spostavano gli occhi su altri orizzonti. “Povera creatura” sentii dire dai miei zii. Capii presto che si riferivano a me. Quale tremenda sorte avevano visto nel mio futuro che io non avevo colto? Intercettai nei loro discorsi anche una parola che non conoscevo. Le donne la sussurravano veloci, come se scottasse sulla lingua. “Amante”, afferrai. Immaginai che avesse a che fare con l’amore, ma non sapevo cosa volesse dire. Quando lo domandai a una cugina grande, mi lancio un’occhiataccia, spiegandomi che non significava proprio niente. Poi mi disse che dovevo sbrigarmi con i grappoli, altrimenti avrei rallentato ii lavoro. Il dubbio me lo levò la maestra, quando glielo chiesi a scuola. Per evitare di fare brutte figure, le raccontai che l’ avevo sentito in uno sceneggiato alla tivù. Quindi, chi è che aveva l’amante? Mio padre? Mia madre? “Povera creatura” avevano detto i parenti. Questo significava che sarei rimasto solo? Alla fine dell’autunno mio padre andò via di casa. Fece giusto in tempo ad assaggiare il novello. Dunque, era mio padre che aveva un’amante, dedussi io. Aveva deciso di andare a vivere con quell’altra. Mi veniva a trovare di domenica, senza mai parlarmi di quella donna con cui aveva sostituito mia madre. E mai gli chiesi niente di lei. Avevo tredici anni quando accadde ciò che temevo, ma che non credevo possibile. Mio padre non si presentò a quella vendemmia. Fu la prima che saltò da quando ero nato. Io intanto ero cresciuto d’altezza dieci centimetri buoni rispetto all’anno precedente. Raggiungere i grappoli più in alto mi risultava facile. Ora che il mio vecchio si era tirato indietro, toccava a me essere l’uomo della famiglia. Mi sentivo in diritto di comandare i cugini più piccoli, di trattare gli zii da pari, di fare le veci di mio padre con gli altri parenti. Se il vino matura in botte, io maturai portando l’uva nei tini. Seguirono altre vendemmie calde e altre vendemmie fredde, vendemmie ricche e vendemmie grame. Le annate alternarono gioie e dolori, leggerezza e tormento. Finché un anno, io ne avevo quasi diciassette, tra i filari riapparve il profilo di mio padre. Pareva pieno di energia e buoni propositi, come se avesse voluto recuperare le annate perdute. Nessuno lo incoraggio, nessuno lo ostacolo. Non troppo distante da lui, mia madre recideva i grappoli che aveva davanti agli occhi. Qualche volta la sorpresi a dare un’occhiata verso quello che, stando alla legge, era ancora suo marito. In autunno, mio padre tornò a casa. Assaggiò il vino nuovo: dolcissimo. Non mi diede spiegazioni. Pensò che ormai fossi un uomo, in grado di capire. In grado di capire che il tempo non è affatto ciclico. Che le cose non si ripetono mai come prima. Come non esiste una vendemmia uguale a un’altra, un vino identico all’annata precedente, una bottiglia con gli stessi profumi di una collega uscita dalla medesima cantina. Oggi, che ho l’età della pensione, a settembre scendo ancora in vigna a vendemmiare. Non ci sono più i miei parenti a fare questo lavoro. Lo faccio da sconosciuto tra gente sconosciuta. Solo per dare una mano. Riassaporare le piccole cose del mio passato. Solo per immaginare, tra le ombre dei pampini, i visi di mio padre e di mia madre.
2° Classificato Narrativa: Sergio Tumiato con “Dell’importanza di arrostire il pane”
Amatissima, mia donna del sonno, mi perdonerai se oltre a dirti quello che ti sto per dire lo scriverò anche, giusto per precauzione, nel caso tu ora non possa sentirmi e quando ti sveglierai vorrai sapere cos’era quel rumore di fondo, quel brusio continuo che ti distoglieva dal tuo riposo così profondo ma non abbastanza profondo dal “liberarti di me”, che nei momenti di rabbia a volte mi scagliavi contro. Voglio essere sicuro insomma che le cose che ti racconto ti giungano in qualche modo al tuo risveglio,
quando o se, magari io non fossi qui. II pane. Uno potrebbe pensare “ecco, dice la prima cosa che gli passa per la mente, giusto per intrattenere”. No, il pane tra noi è sempre stato importante o meglio, io ho dato sempre una grande importanza al pane, mi ha sempre affascinato la sua costruzione al pari del
suo gusto. Devi ammettere che è sempre stato un bell’argomento tra noi mia cara amatissima donna del sonno, tanto che, quando i nostri impegni reciproci lo consentivano, era il pretesto più abusato per uscire a “prendere un po’ d’aria”, come io ti dicevo. Vieni con me a prendere il pane? Ti dissi per la
prima volta quel sabato mattina, e quando imboccai l’autostrada mi guardasti con l’occhio incerto, tra l’incuriosito e quel minimo istante che precede la tempesta che, detto tra noi, è un altro dei momenti che io più amo in te e in assoluto, quando il vento piega le chiome degli alberi più alti e sembra quasi
vogliano fare da scudo alle piante più piccole e gli odori che vengono da più in là si mescolano ai nostri. Quel tuo sguardo dicevo, non aveva bisogno di essere tradotto in parole. Lasciai passare qualche istante, stretto nelle spalle e con i denti serrati e “non ho neanche chiuso la porta a chiave e guarda come siamo vestiti”. In effetti ripensandoci, come sorpresa era riuscita fin troppo bene, ma devi ammetterlo fu davvero divertente. Da Rovigo a Vicchio del Mugello per prendere il pane “ci vuole una discreta fantasia” mi dicesti e invece no, non so per quale associazione di idee ma quella mattina appena sveglio mi venne alla mente il pane che avevo comprato da quel fornaio nella piazza di Vicchio molti anni prima, quando ancora, mia amatissima donna del sonno, non ci conoscevamo. Ero andato fin là con la comitiva dell’A.N.P.I. per visitare la vecchia scuola di don Milani, esperienza davvero toccante anche se, devo dire, non esente quel posto da un certo qual misero sfruttamento economico che non avrebbe ragion d’essere. Ma lasciamo stare, ero andato fin là dicevo e arrivati, al contrario del resto della comitiva, che si fiondò nel primo bar a rifocillarsi con spritz e caffè, io mi infilai in quella panetteria all’angolo della piazza da dove usciva un profumo di pane fresco al quale non avrei potuto resistere nemmeno per un fioretto, dico cosi mia cara perchè so che tu sai che non credo a fioretti miracoli e a tutto il resto, però un po’ di colore a questo racconto lo vogliamo dare?! Entrai dicevo e la fornaia, bella robusta proprio come me la sarei aspettata, mise nel sacchetto tre di quelle pagnotte dalla
crosta croccante e insipide come si conviene. Non feci in tempo a uscire che già avevo iniziato a sgranocchiarne una, la finii su una panchina della piazza, nel pieno sole di inizio Maggio, che è quello che preferisco perché è il tempo nel quale si fanno i progetti, tutti quei bei propositi che al novanta per
cento si arenano poi nel torrido sole estivo e che non trovano posto nel resoconto tardo autunnale, periodo questo, nel quale , bisogna ammetterlo, qualcosa di ciò che non si è stati in grado di fare in precedenza, si trova il modo di portare a temine. Così è la vita, dicono i vecchi, mia cara amatissima e
ancora dormiente mia cara. Ma eravamo in autostrada, direzione Bologna che, ancora non sapevi dove ti avrei portata. E io che pensavo che quella piccola fuga sarebbe potuta diventare una delle vacanze più belle che avessimo mai avuto. Superata Bologna iniziasti veramente a preoccuparti, per fortuna il Mugello era poco più in là e usciti dall’autostrada, alla vista del piccolo lago e delle dolci colline il tuo viso miracolosamente si rasserenò. E poi, dopo il fornaio bisognava pur fare qualcosa e facemmo quello che tutti i turisti fanno, anche quelli squinternati come noi: Don Milani, la casa natale di Giotto e quel piccolo museo davvero ricco di preziosità inaspettate ti ricordi?, Ti ricordi mia amatissima, mia regina del sonno, ti ricordi quell’anfitrione dall’aria improbabile che si rivelò invece raffinato conoscitore, non solo di quel che il museo aveva da offrire e parliamo del Beato Angelico e della sua “Sacra Famiglia” tanto per gradire, per non parlare della parte archeologica davvero notevole, no non solo di quello sapeva, quella guida improbabile ma anche di letteratura e filosofia e non ci voleva mollare una volta stabilito che mi aveva riconosciuto. Non ebbi il cuore di lasciarlo alla mercé degli
altri visitatori. Nella sua mole imponente, in quel suo cappotto blu un tantino demodé e infarinato di forfora. Era persona ricca in conoscenza ed umiltà, due qualità che è sempre più raro trovare appaiate. Furono veramente tre giorni sereni come non ci capitava da tempo e furono anche un punto cardine del
nostro nuovo modo di intendere la vita. Fu lì che io cominciai a rallentare e tu lo capisti e mi seguisti anche se a distanza di qualche tempo, visti i tuoi importanti impegni di lavoro ma, quella era ormai la rotta e non era dato di tornare a correre. Non avremmo più corso dietro a nient’altro che alla lentezza mia cara amatissima regina del sonno. Un “quel che resta del giorno” a lievitazione naturale, tanto per rimanere in tema. E tornati a casa, con la nostra abbondante scorta di pane sciapo trovammo il modo di non sprecarne nemmeno una briciola. Scoprimmo che riscaldato sulla piastra era perfino meglio di quando era fresco e il suo sapore contribuiva anche alla mia prolificità creativa e non solo, ebbe anche l’effetto di rinvigorire il nostro rapporto. Tanto che quella prima sera, dico prima in rapporto al pane mia amatissima, beh ce lo scordammo sulla piastra perché qualcosa in quei giorni aveva riacceso la fiamma che in noi da qualche tempo languiva. Da quella volta decisi che i segnali del mio appetito erotico te li avrei lanciati mettendo due fette di pane sulla piastra, fette di pane condannate inevitabilmente ad arrostire inutilmente. E mi stupisti quando fosti tu a fare tua questa splendida consuetudine, tu cosi pudica nell’esprimere i tuoi appetiti sessuali. Avevamo stabilito un nuovo codice, un nostro particolarissimo codice segreto mia amatissima, mia dolce signora del sonno. Ora, amatissima mia regina del sonno, i medici mi dicono che in questa prima fase era facilmente prevedibile che gli stimoli che loro potevano mettere in campo difficilmente avrebbero avuto successo. Bisogna aspettare, attendere l’evolversi della situazione per tentare di intervenire con altri mezzi. Nel frattempo dicono; possiamo provare noi a stimolarti con la nostra presenza, parlandoti e facendoti ascoltare magari della musica, quella che a te piaceva di più. Alessia ha registrato tutta una giornata con le bambine sperando che i vagiti e le prime grida delta più piccola e i colloqui con la mamma e il papà della più grande possano essere utili. Io, mia amatissima signora del sonno, ho comprato un fornello elettrico, sai uno di quelli con la piastra, ho chiesto ai medici il permesso di usarlo. Permesso accordato. Ed ora sono qui. Ah! sono di ritorno dal Mugello. La fornaia mi ha chiesto di te. A volte compassione e tenerezza spuntano quando e dove meno te lo aspetti. Deve averlo letto nei miei occhi, il dolore. E così, mia amatissima, mia cara regina del sonno, mi sono confidato con la nostra fornaia, la quale ha lasciato i suoi clienti, mi ha condotto nel laboratorio e mi ha fatto sedere, ha fatto un cenno al marito che un po’ stranito ha continuato ad infornare e lì gli ho raccontato di noi, di quello che ci è capitato, non senza un bicchiere di sangiovese che ho bevuto per accompagnare una crosta del nostro pane, pensa; mi ha voluto tagliare anche qualche fetta di ribollita. Un altro sapore che non scorderò mai più, pane e ribollita con sangiovese e lacrime.
3° Classificato Narrativa: Monica Prisco con “Ode alla ciabatta”
Ode alla ciabatta pasticcera che risveglia il ricordo di mattine fresche, in maniche corte, nelle botteghe del centro di una volta, i bar dove la luce entrava piano piano e odorava sempre un po’ di muffa; ma di un sentore leggero, che condiva il fresco risveglio della notte torrida. La ciabatta larga ma secca, senza la pancia come i cornetti; la ciabatta ripiena di marmellata o crema ma soprattutto la ciabatta orlata di caramello, lo zucchero bruciato da una sapiente cottura. E il dorso, con la sua dolce trama di croccantezza e morbidezza, in felice connubio con la distesa di polvere di neve; la prima cosa era leccare quella dolce polvere e poi addentare uno di quegli angoletti scuri in cui lo zucchero s’era addensato. Poi, lentamente, il corpo del dolce, il suo tenero cuore ripieno. Tra un morso e l’altro uno schiocco di lingua, un sorso di caffellatte, freddo, a ristorare le membra accaldate dall’estate. E in quel sapore, tra la bevanda e il caramello della pasta, ti sentivi appagata e pronta per la vita che avvertivi palpitare all’esterno di quel bar. Chissà che sorprese in quel giorno appena fatto, chissà che magie aspettavano me ragazzina in quell’inizio di giornata. Quante emozioni e avventure mi avrebbero accompagnato fino al rifiorire quotidiano dei belli di notte, quando il calar del sole avrebbe segnato la fine di un’altra esplorazione. In quel dolce mattutino c’erano tutte le mie speranze, la mia curiosità, che non sentivo solo mia ma che condividevo con tutto ii genere romano prima e umano poi. Tutti, pensavo, sentivo, ridevano nel fresco mattino della vita, tutti avevano un’avventura, un’emozione che Ii aspettava quel giorno, come quasi tutti gli aItri giorni; forse si, c’erano altre mattine, ci saranno state giornate grigie e buie, in cui già sapevi che una qualche morte t’avrebbe schiaffeggiato più o meno forte; una tristezza, un’amarezza arrivate da un gelido paese del nord a rovinarti l’estate della vita. Ma anche quell’acquazzone sarebbe passato. Avresti stretto i denti e atteso un’altra radiosa mattina in un bar del centro, caffellatte e ciabatta!
Menzione speciale narrativa: Carlo Alberto Minzoni con “Carolina”
Lo sciacquone di un water tirato in piena notte d’estate dal vecchietto incontinente del piano di sotto che ti sveglia nel cuore della notte; cominci a rigirarti nel letto, tutto sudato, ora da una parte ora dall’altra e non riesci più a riprendere il sonno perduto. Poi, improvvisamente, spuntano le prime luci dell’alba: il gioco è fatto. I primi rumori provengono dalla strada sottostante; sinistri clangori del camion della spazzatura che esegue il suo quotidiano servizio di smaltimento, i latrati dei cani che, dandosi la voce, escono trionfanti in parata mattutina con i loro ancor assonnati padroni, sempre in seria difficoltà a tenerli al guinzaglio, e poi, le peggiori di tutte, le metalliche martellate delle campane elettriche del campanile che, casomai ti fossi scordato, annunciano che la nuova giornata assolata sta per iniziare. No, non è possibile vivere in questo modo, ora basta! Via, via, bisogna andare via da qui, volare via, lontano da questa rupe, volare più in alto, sorvolare queste umane debolezze e atterrare lontano, in un luogo nuovo e diverso, dove il tempo e lo spazio hanno un’altra dimensione, incompatibile con questa…
“ ...come la mano sapiente del maniscalco, che con ritmate martellate batte il rovente ferro a guisa del volere suo, così l’estate lentamente, ma molto lentamente piegava la stagione ai voleri dell’incipiente autunno. Grossi temporali mitigavano l’aria di quel caldo torrido….”
… tuonate pazzesche e pioggia a catinelle mentre di fretta, ormai fradicio, con la chiave fai scrocchiare lo scoppo nella toppa del vecchio portone di legno del casolare di campagna; apri pure la porta a vetri interna e finalmente ti trovi dentro casa. Respiri piano, accendi la fioca luce e.. come d’incanto il tempo si ferma! Compaiono oggetti a te cari e antichi: la vecchia e panciuta tivù a tubo catodico, in bianco e nero, appoggiata sopra il suo tavolino di cristallo con la radio a valvole riposta nel ripiano inferiore. Appeso al muro, come un crocifisso, sta l’orologio che ancora faticosamente muove il suo anchilosato pendolo, per segnar l’ora a scarafaggi e formiche, uniche forme viventi che si muovono nel buio della casa; sul lato opposto la vecchia credenza di legno e la sua vetrina, con sempre in bella mostra sui suoi centrini di pizzo e schierati in parata come un esercito napoleonico stanno in avanscoperta e sull’attenti il servizio da tè e da caffè, quello antico, quello buono; poi in retroguardia i pezzi più grossi, la zuppiera con le scodelle a
fargli da contorno e da guardia, e poi più indietro, sgargiante come un generale a cavallo, il piatto ovale grande da portata. In mezzo alla camera, sul vecchio pavimento di graniglia ormai sbrecciato in vari punti, che assomiglia sempre più al greto di un torrente in secca estiva, troneggia il vecchio tavolo in noce, consumato e segnato dal tempo, con decine di nodi sporgenti simili alle vene varicose delle gambe di un vecchio contadino che
ha zappato terra per una vita intera. Tutto questo assolutamente rotto e cadente e per questo motivo tutto meravigliosamente bello. E poi, sul lato opposto, seduta e sempre pazientemente in attesa, ci sta lei, con il volto imbronciato, con il gomito sempre alzato verso la canna fumaria, come a dirti che lei rimane sempre lì, in attesa, c’è Carolina, la vecchia stufa a legna smaltata di bianco, con il suo ripiano in ghisa ad anelli concentrici, la vecchia e cara “cucina economica”. Sembra quasi che ti dica: “dai, forza, cosa aspetti”; allora apri delicatamente lo sportellino, rimuovi la vecchia cenere rimasta, infili dentro alcuni rametti secchi avvolti col foglio di un vecchio giornale, accendi un fiammifero di legno e lo appoggi sulla carta che, debolmente, comincia ad ardere. Attendi e mano a mano che il fuoco si ravviva inserisci pezzi di legno di spessore sempre più grande fino a quando la puoi lasciar andare in piena autonomia. I primi tepori intaccano la sottile coltre d’umidità rimasta nella stanza ed ora, pian piano, ti puoi scrollare
di dosso gli abiti inzuppati. Aprendo poi le finestre, dando luce e nuova vita alla casa, ti accorgi del mondo intero che fuori sta cambiando volto e colore. L’arsa terra assetata si è ormai inzuppata e annerita, rinvigorita dal dono caduto dal cielo. Vortici di foglie rinsecchite si sollevano ad ogni folata di vento andandosene a vagare per loro conto dentro il cortile. Ormai il maltempo se ne è quasi andato del tutto e nuvole più chiare attraversano
velocemente il cielo. Ed ecco, finalmente, arriva la prima lama di luce; abbagliante come un enorme e potente riflettore che inonda il tuo giardino di un milione di colori nuovi e così diversi fra loro; e quando una folata di vento li rimescola, con la sapienza di un vecchio pittore impressionista, ridando una nuova immagine al dipinto, ti accorgi quanto sia meraviglioso questo autunno che toglie tutte le certezze assolute della lunga stagione estiva ridandoti il piacere dello stupore, dell’emozione e pure dei tuoi mai sopiti dubbi, che ritornano a casa dopo il troppo girovagare. Bello l’autunno che viene prima della stagione lenta e profonda dell’inverno e ancor più bello della bizzosa e variabile primavera, che un giorno appaga e l’altro riscuote, troppo giovane per poterti fermare a pensare, troppo vogliosa di vita vissuta. Stagione del raccolto l’autunno, dei frutti antichi e poveri che la vita d’oggidì non li vuole nemmeno prendere in considerazione. Allora tu, umilmente, esci di casa e li raccogli come fossero pietre preziose, nate quasi per sbaglio ai margini del cortile e le porti in cucina per la loro sublimazione. Sono le mele dell’abbondanza che i contadini piantavano a margine delle proprietà per rafforzare gli argini, mele troppo dure per essere consumate fresche, e le pere francesi, ultimo residuo dell’impero napoleonico, le “passè-crassane” volgarizzate in passacrassana. Pochi fori fatti con i rebbi di una forchetta sulla loro superficie per impedir loro di scoppiare e poi via, inseriti stretti stretti in un vecchio tegame di alluminio e spediti dentro al forno di Carolina che li accoglie con amore come una madre accoglie i suoi figli nel suo ventre materno. Non serve l’orologio per ricordarti la fine della cottura; un dolce profumo di miele di acacia permea l’aria e ti dice che è tutto pronto; sono odori antichi, come il profumo portato dai “mandorlari”, che ornavano le loro bancarelle di prelibati dolciumi nelle vecchie fiere paesane. Lo stupore di un bambino che sgrana gli occhi all’arrivo del regalo del giorno della befana è il tuo stesso stupore all’apertura del forno: le mele avvolte in una schiuma zuccherina che sembra la spuma del mare sulla spiaggia, e le pere, ancora rigide e solenni, aspettano l’ultimo tocco di goloseria, un tuffo nella cioccolata calda che hai sciolto nel frattempo in un pentolino ed il gioco è fatto! E mentre te ne ritorni mestamente in città, seduto dentro la tua scassata scatolina di lamiera, con l’odore della frutta cotta nell’abitacolo, vedi tanti simili, come te seduti dentro la loro scatolina ambulante, tutti fermi e ingabbiati nel traffico della sera, e vedendo quei volti inespressivi, facce stanche con le occhiaie e sguardi persi nel vuoto, presi dai loro pensieri, un po’ provi compassione e pensi tutto sommato che anche loro sono diventati come le tue pere: dietro ad una scorza dura e croccante di cioccolato marmorizzato forse sotto sotto batte un cuore di morbida polpa fragrante…
1° Classificato Poesia: Ivan Fedeli con “Traslochi. Le scatole dei libri. Il latte in frigo”
Le scatole dei libri il latte in frigo
un gratta e vinci da tabaccheria
all’angolo. Le cose che fine fanno
le cose mentre le sposti fai mente
locale sulle foto a Praga i primi
disegni di tuo figlio la poesia
scritta per Natale dimenticata
poi tra creme per le rughe e i silenzi
dei mobili. Vorresti tu un angelo
custode che le conservasse a lungo
quasi ci fosse l’anima anche lì
nei cellulari vecchi nelle agende
nelle tende bianche ancora da stendere
in balcone. Traslocare è un prima e un dopo
come un battesimo un nome da dare
la vita che va chissà dove. Ridi
e fai la polvere intanto il caffè
pronto nella moka. È mattina qui
in tangenziale le code di rito
la tele ancora da spegnere e noi.
Tutto intatto regolare anche il cielo
i piani da scendere l’idea
del vicino che chiama ti dice ciao.
2° Classificato Poesia: Alessandra Jorio con “Il sapore buono dell’attesa”
Mia madre seminava
quando era il momento
e quando non lo era. Seminava
perché andava fatto
per non peccare di spreco
per non perdere nulla.
Era sempre un tempo giusto
se pure imperfetto, un tempo
necessario. Con nomi affettuosi
carezzava il nocciolo nudo, indifeso.
Fiduciosa lo seppelliva nel buio
e con dita gentili rimboccava la terra.
La bagnava. La nutriva. Aspettava.
Ogni tanto gettava uno sguardo
fugace, di certo pensava
Non bisogna disturbare, là sotto.
Custodiva il mistero. Venerava
il più antico segreto. Talora
credendo di scorgere la zolla
incresparsi, baluginare verde
e sollevare il capo un germoglio,
rideva come ridono i bambini
emozionati, senza vergogna.
Nelle vene della terra mia madre
seminava, rispettava il tempo,
attendeva alla vita. Concedeva
al ramo secco, sempre,
un’altra primavera. Dalle pieghe degli anni
a me ritorna forte e buono
ad ogni principio di stagione
ad ogni vigilia di festa
ad ogni strada che si apre
alla prima pietra deposta
ad ogni lettera inviata
ad ogni impasto di lievito e farina
ad ogni bocciolo chiuso
che sia un figlio o un fiore,
nel prodigio inavvertito
di un tempo imperfetto e mirabile
il sapore buono dell’attesa.
3° Classificato Poesia: Samuele Cappellini con “Come l’acqua al Bedawi”
Ti vive dentro
il calore di questi tramonti
Un rosa
che non ti abbandona
e muta incipiente
ad ogni sfumare del tempo
Pare un infinito deserto
sinuoso di linee
ed accenti
a tratti solcato
da gole profonde
come tulle di vento
cinte tra i fianchi
Ti vive dentro
il calore di questi tramonti
un rosa
che avvolge ogni sguardo
tra provvidi istanti di pace
sognati
desiderati
come l’acqua
al viandante Bedawi
Lì tra gli anfratti più severi
dell’anima
dove l’incedere stenta sovente
tra giochi di luce
e ruvidi sentieri
sgorga silente
un istante d’immenso
Ti vive dentro
il calore di questi tramonti
oltre ogni fibra dell’io
più profondo
L’armonia d’un frammento
d’eterno
che accasa speranza
Sempre